Addomesticare il tempo - N°012

Riflessioni sul 'rumore' che ci circonda e dalla saggezza di chi osserva la pazienza della natura, esploro la sfida di dare valore a ogni istante, puntando a 'seguir virtute e canoscenza' invece di perdermi nell'effimero.

Addomesticare il tempo - N°012
Io, su un'amaca appesa al boma della barca.

Le settimane scorrono, ahimè, veloci. Ma dense. Molto dense. Che ieri sembra un mese fa, che settimana scorsa è l'anno scorso. Lavoro tanto, vivo tanto.


L'altro giorno, mi è capitato di ascoltare un'intervista a Paolo Bonolis. Come di finisce ad investire 1h del proprio tempo ascoltando Paolo Bonolis? Non lo so ,ma tant'è. Tra una chiacchiera e l'altra però qualche minuto è stato davvero profondo, si è finiti a parlare di AI e tecnologia. E lì, Bonolis ha detto una cosa molto intelligente, una di quelle che ti si pianta in testa e non se ne va. Ha toccato un nervo scoperto forse, parlando del fatto che gli smartphone sono la soluzione prêt-à-porter a tutti i mali temporanei che affliggono l'era moderna. Immagini, video, suoni, il rifugio perfetto per chi non ha voglia di pensare.

E questa riflessione si è agganciata, come un'onda che segue la sua precedente, a un film che ho visto di recente: In Time. Attenzione, ben diverso da quel gioiellino di About Time, che continuo a consigliare con tutto il cuore a chiunque. No, In Time dipinge un futuro distopico dove la moneta corrente è il proprio tempo rimanente di vita. Un'idea che trovo estremamente affascinante, lucida e di ispirazione. Un concetto che, a ben vedere, non dovrebbe essere poi così distante da quello che dovremmo avere ben stampato in testa. Anzi, dovremmo interrogarci profondamente, dovremmo capire come fare amicizia con questa consapevolezza: l'unico, vero, elemento finito che possediamo è il tempo. E su di esso, noi, come esseri umani, non abbiamo alcun potenziale di controllo sulla sua quantità totale.

La materia invece, quella sì. I soldi per acquistarla, che sono essi stessi materia, potenzialmente possiamo crearli, possiamo guadagnarli, possiamo architettare sistemi affinché entrino nelle nostre tasche (banalmente, vendendo il nostro tempo). Attorno a noi, vediamo casi che, con una certa superficialità, chiameremmo "di successo", ma che, a grattare a fondo, sono semplicemente casi di accumulo di materia. Di poco conto rispetto alla bellezza dell'amore e alla gioia della vita. Tutta quella parte lì, quella materiale, è potenzialmente accessibile a chiunque, con le giuste strategie, la giusta dose di fortuna o, chissà, di coraggio. Il tempo, invece, quello no. Quello è un flusso che va in una sola direzione, inesorabile. E questa consapevolezza della nostra finitudine biologica non dovrebbe spaventarci, anzi. Dovrebbe trasformarsi in un gesto di gioia, un gesto di ringraziamento per tutto quello che la vita ci ha offerto e ci offre, un motivo per dare ancora più valore a ogni singolo istante.

Tempus fugit

Ora, sia chiaro, non sono qui a tediarvi con la solita tiritera del "tempo che passa". Quello, per fortuna o purtroppo, lo viviamo tutti sulla nostra pelle, ogni singolo istante. No, il punto che mi preme, quello su cui continuo a tornare, è il rapporto viscerale che c'è tra il pensare, l'essere consapevoli, e la scelta, spesso inconscia ma non per questo meno deliberata, di non esserlo. E anche su questo punto, sono abbastanza fermo e convinto: chiunque, dico chiunque, ha il potenziale intrinseco di essere consapevole. Ma il pensiero, quel meccanismo meraviglioso e complesso, è talmente entropico, così diffuso e così pericolosamente vicino all'essere un volano che si autoalimenta, da rappresentare, in assoluto, la più grande sfida di tutti i tempi. È una battaglia costante.

Ci hanno inculcato, fin da piccoli, che per pensare bisogna fermarsi. Ma nelle nostre testoline ignoranti fermarsi è già di per sé un task, un compito che richiede un certo tipo di impegno, una certa dose di energia mentale. E quindi? Quindi, spesso, viene saltato a piè pari. Fermarsi implica non correre, e non correre implica cambiamento, e il cambiamento implica il rischio. Il rischio di non sapere, il rischio di non rimanere aggiornato, il rischio di rimanere fuori da qualcosa, di perdersi qualcosa. E il rischio di perdere qualcosa, ahimè, è deleterio, perché ci paralizza, non ci fa agire. È proprio quello che ci tiene ancorati alle nostre abitudini, è quello che, paradossalmente, ci tiene in perenne movimento, in una corsa affannosa verso un non meglio precisato "qualcosa". Sembra che abbiamo sempre fretta, una fretta che ci consuma, dimenticandoci che, come osservano le creature più antiche e sagge del pianeta, le piante non hanno traguardi, sono lì e aspettano. Noi, invece, corriamo, senza renderci conto che forse stiamo solo scappando da noi stessi.

Ho provato diverse volte a fermarmi. Letteralmente. Anche per dieci giorni filati, con l'esperienza intensa del corso di Vipassana. Fermarmi completamente, non avere nient'altro a cui pensare, se non al mio respiro. Ed è, senza ombra di dubbio, un modo meraviglioso, quasi miracoloso, per ritrovare quella sensibilità che viene quotidianamente anestetizzata dal frastuono del mondo. Dall'altra parte, però, mi interrogo quotidianamente, quasi ossessivamente, su come portare questo livello di attenzione nella vita di tutti i giorni, come renderlo pervasivo, come far permeare le mie ventiquattro ore da questo livello di attenzione senza necessariamente dovermi isolare dal mondo, senza dovermi "fermare" nel senso letterale del termine. Come affrontare con consapevolezza, con coscienza, ogni singolo istante, anche quelli in movimento, quelli frenetici, quelli che sembrano scivolarci sotto la carena della nostra barca chiamata Vita.

Ridurre il rumore

E sono convinto, nel profondo, che lo si possa fare. Sì, lo si può fare, magari con qualche piccola, ma preziosa, accortezza.
Per prima cosa, ovviamente, e qui non si scappa, bisogna ridurre il rumore. Ridurre drasticamente tutto quello che non è segnale, tutto quello che non è informazione utile per noi. Siamo immersi in un frastuono continuo, abbiamo perso la capacità di abitare i tempi naturali, i tempi delle stagioni, i silenzi. E in questo frastuono, la biodiversità stessa del pensiero, che dovrebbe essere un'esigenza fondamentale come lo è per la natura, va a cozzare contro una spinta tremenda all'omologazione di Sapiens. È fin troppo facile essere tutti uguali, pensare le stesse cose, desiderare le stesse cose, consumare lo stesso rumore. E qui, mi viene in soccorso un insegnamento del buddismo, semplice ma potentissimo: l'informazione, per essere tale, deve essere utile, vera e gentile. Al cadere anche solo di uno di questi tre aggettivi, quella che abbiamo di fronte, ho imparato a mie spese, non è informazione, ma rumore. Puro e semplice rumore che alimenta l'omologazione. Quindi, il primo passo, imprescindibile, è fare pulizia, ridurre il rumore per tenere solamente quello che c'è di buono, quello che nutre, quello che costruisce individualità e pensiero critico.

Ancorarsi

Al secondo punto, c'è un piccolo trick, un espediente che può fare la differenza: quello di crearsi la propria ancora. Un punto fermo a cui aggrapparsi quando la marea dei pensieri e delle distrazioni minaccia di travolgerci. Può essere il respiro, certo. Può essere una sensazione fisica. Può essere un'azione manuale, un movimento ripetuto, qualcosa che mi riporta qui, ora, al presente. Il respiro, in questo, è il più semplice, il più democratico: ce l'abbiamo tutti, è sempre con noi, e continua il suo lavoro instancabile anche quando non ci pensiamo minimamente. Quindi, trovare l'abitudine, costruire la consuetudine di ancorarsi al respiro, ci riporta magicamente nel presente. E questo, badate bene, può avvenire, per esempio, durante una camminata, nel bel mezzo di un discorso, quando si è a cena con gli amici, in qualsiasi momento. Questo tipo di ancora è, esso stesso, un invito a pensare. E qui mi aggancio a un'idea che mi frulla in testa: se esiste la memoria muscolare, perché non dovrebbe esistere anche la memoria del pensiero? Su questo non sono ancora del tutto convinto, ma l'intuizione è forte. Quando richiamiamo un momento di attenzione, per esempio, un momento che ci ricorda una pratica di meditazione, ecco che, quasi per magia, subentrano e vengono richiamati tutti quegli stati di concentrazione e di rilassatezza che erano soliti accompagnarci, o che abbiamo faticosamente sviluppato, durante le fasi di meditazione. E se non avete mai meditato… beh, forse è ora di iniziare.

Le barchette digitali

Ci sono momenti, però, e qui la faccenda si complica, in cui anche la consapevolezza coltivata con tanta fatica non è sufficiente. Mi è successo proprio l'altra sera: tutti a dormire, casa avvolta nel silenzio, e io lì, sveglio. E sapevo, lo sapevo con una chiarezza quasi dolorosa, che quel tempo lì, quel tempo regalato, l'avrei potuto occupare meditando, o ringraziando per la giornata trascorsa, o semplicemente riflettendo, con calma, sugli eventi. Eppure. Eppure, l'ho passata giocando a un simulatore di vela. Barchette. Digitali. Mah.

Ero consapevole, perfettamente consapevole, che oggettivamente stavo impiegando il mio tempo in un'attività di bassa, bassissima qualità. Eppure, l'ho fatto. Qual è il meccanismo perverso che mi ha portato lì, a quella scelta? Ci ho riflettuto un po', e senza voler sovrastrutturare troppo la risposta, credo che la radice sia stata una: dimenticarmi, ancora una volta, che il tempo è finito e che ha un suo valore inestimabile, irripetibile.

E a questo proposito, sono anche abbastanza stufo, se devo essere sincero, di tutti quel chiacchiericcio auto-assolutorio sul fatto che "ma sì, va bene così", "puoi darti del tempo di svago", "puoi concederti del tempo di cazzeggio", e via dicendo. Credo che questa sia una narrazione distorta, una comoda scappatoia tipica dei nostri tempi frenetici e superficiali. Credo sia una scusa bella e buona che ci diamo per non caricarci del peso, che è anche una responsabilità, del pensiero che "il tempo è finito". Non credo affatto che questo atteggiamento sia nelle nostre corde più profonde. Anzi, osservo con una punta di invidia, lo ammetto, di chi non si concede questi continui tempi di distrazione, chi riesce a mantenere un focus più saldo. Sono persone più energiche, più rilassate, più svagate nel senso autentico del termine, più vive di me. E questo, per me, è un grande esempio, un grande sprone, un motivo potente per cui impegnarmi ancora di più a valutare il tempo per quello che realmente è: la risorsa più preziosa. E usarlo al meglio.
Poi, sia chiaro, non voglio fare l'ipocrita: sono il primo che, realisticamente, un terzo abbondante della giornata lo passa davanti al computer per fatturare qualche K in più. Non sono di certo ancora un eremita o un monaco tibetano, lontano da ciò. La lotta, appunto, è quotidiana.

E così, mi ritrovo qui, a fine riflessione, con più domande che risposte, forse. Ma con la certezza che questo mal di mare che ci tiene uniti, merita tutta la nostra attenzione, tutta la nostra cura. La sfida è immane, ma forse, proprio nel riconoscerla, nel parlarne, nel condividere questi inciampi e queste piccole illuminazioni, c'è già un primo passo per riappropriarci di un'esistenza un po' più vissuta. Perché, come ci ricorda un verso immortale che risuona con una forza incredibile anche oggi, "Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza." Ecco, forse è tutta qui la questione: usare il nostro tempo, questo dono finito e inestimabile, non per annegare nel rumore e nella fretta, ma per coltivare la virtù interiore e la conoscenza del mondo e di noi stessi.

Alla prossima!


Cosa sto leggendo

  • Dio era morto - Rick Dufer

Link belli

  • questo giro nessun link bello, state nella natura, non su uno schermo! :)