Smarter than the machine - N°005

Una guerra persa? Per me, vinta dal principio.

Smarter than the machine - N°005

Un imprenditore mi ha detto: "Voglio lavorare per migliorare il mondo, perché ci sia più amore e vitalità". Gli ho creduto.


Chat di lavoro, postano un link di una demo di Copilot: un dev replica la UI di Threads chattando con VSCode. Per mia nonna che mi legge: tizio progetta un "sito" parlando con il computer.

Poi, il messaggio che non mi aspettavo:

When will Matteos be out of the equation?
Matteos = Interface & visual designers

Due cose triggerano le mie sinapsi.

  1. Il mittente è un tecnico, tutt'altro che sprovveduto. Eppure, confonde ancora UX con UI. Sarà la maledizione eterna dei designer che ci porteremo nella tomba? Mi ci vedo sul letto di morte:
"Matte, ma quindi facevi UX/UI?"
"Vaffanculo, Johnny"
  1. Strumenti come Copilot spazzano via il grunt work, lasciando ai designer il ruolo di curatori di significato.

Ma allora: chi deve seriamente preoccuparsi per la propria carriera? Chi si salva? Ma soprattutto, come possiamo essere più intelligenti della macchina?

Avevo già iniziato una riflessione sul tema, raccontando del perché i progettisti possono dormire notti tranquille; ora andiamo oltre.

I progettisti sono fatti per restare - N°001
Si salpa! Primo post, confezionato prima di andare a pranzo dalla nonna. Se mi avete sentito parlare di design negli ultimi anni, saprete che ripeto spesso una cosa: qualsiasi piattaforma digitale erogata tramite pixel è ormai una commodity 🤷‍♂️ . Lo sono gli e-commerce che aprono come funghi, le app che replicano

Mele e pere

Scopro che ci sono un'infinità di intelligenze diverse. Le più rinomate sono l'intelligenza logico-matematica, linguistica, spaziale, musicale, cinestetica, interpersonale e la più blasonata emotiva.

La Treccani va dritta al punto:

L'intelligenza (/in.tel.liˈdʒɛn.tsa/) è la capacità di apprendere dall'esperienza, di adattarsi a nuove situazioni e all'ambiente, di comprendere e farsi comprendere, di manipolare concetti astratti e di utilizzare queste competenze per risolvere problemi e raggiungere obiettivi.

Per misurarla esistono diverse scale: il quoziente intellettivo (IQ), una scala per l'intelligenza emotiva (EQ), una per l'intelligenze multiple (Howard Gardner) e altre a piacere. Per le macchine e l'AI esistono altrettanti test e benchmark, molto più operazionali e dai risultati discreti.

Stiamo quindi confrontando mele con le pere? Chi è quindi il più intelligente? L'uomo o la macchina?

Non c'è risposta e, come i problemi senza una soluzione, la cosa è estremamente affascinante.

Binari paralleli

Papua Nuova Guinea, 2023. Francesca mi si avvicina dopo aver parlato con suo zio, mi mostra le sue mani, parallele tra di loro e con il palmo rivolto verso il basso. Mi dice: "Una coppia funziona quando le due persone rimangono distinte ma camminano nella stessa direzione, una a fianco dell'altra". Niente di più vero! Ed è anche un concetto traghettabile in tanti altri ambiti della nostra vita: senza troppe forzature, anche nella nostra relazione con la tecnica.

Uomo ed AI devono camminare a fianco, senza perdere l'identità dei primi o antropomorfizzando la seconda. La tecnica nella sua forma di intelligenza artificiale deve essere considerata uno strumento, uno sparring partner per una collaborazione efficace e potenziante della nostra natura, mai il contrario. Nel 1800 non ci siamo preoccupati dell'eccesso di elettricità, oggi non dovremmo preoccuparci dell'eccesso di AI... fin quando l'AI viene considerata come strumento e non come concorrente.

"Il futuro appartiene a chi saprà fondere intelligenza biologica e artificiale. Non è una gara, è un duetto" - Ray Kurweil

Se strumenti come Tiktok son sufficienti per scassarci il cervello e far eleggere parola dell'anno 2024 "brain rot", quanto in basso potremmo arrivare con una diffusione incondizionata di ChatGPT?

Dalla mia esperienza, la strada che meglio di porterà a rivivere un nuovo rinascimento e rimettere l'uomo al centro è quella che impone all'AI di rimanere sul binario parallelo al nostro. Purtroppo deve essere per forza un'imposizione, perché al nostro cervello fallace piace un sacco l'affect heuristic e perderemmo il nostro primato più velocemente di quanto stiamo già facendo.

L'affect heuristic è un meccanismo cognitivo per cui le decisioni e le valutazioni vengono influenzate in modo significativo dalle emozioni che una situazione evoca. In pratica, quando una persona si trova a giudicare il rischio o il beneficio di un'azione, tende a fare affidamento sul proprio stato emotivo piuttosto che su un'analisi razionale e dettagliata delle informazioni disponibili, preferendo l'outcome positivo a quello negativo.

Bip bip!

Bip bip era veloce, scaltro, creativo e si muoveva fuori dalla geometria euclidea con nonchalance. Se l'AI è il nostro Willy il coyote, come possiamo allora esser il blu pennuto e salvarci la pelle ogni volta?

Pensiero critico

Non basta avvisarci che "ChatGPT can make mistakes" quando la qualità degli output è così tremendamente verosimile. Dall'altra, questionare ogni singola interazione con le macchine priverebbe di senso il nostro tempo. Ce la possiamo cavare però affinando il nostro pensiero critico e focalizzandoci sulle informazioni o azioni che hanno un impatto rilevante nella nostra vita o lavoro.

Creatività

Senza un obiettivo o istruzioni specifiche, le macchine restano immobili. Sarebbe piuttosto interessante vedere un computer accendersi da solo perché gli va, o una Tesla che va a farsi un giro in autonomia perché vuole vedere il tramonto. Noi invece ci svegliamo la mattina con desideri, voglie, pensieri e non sappiamo neanche il perché. La nostra imprevedibilità è un tratto da coltivare e curare con amore perché l'incognito è movimento, energia e vitalità.

Socialità e intelligenza emotiva

Vi immaginate un giorno guardare negli occhi un robot e digli "Ti amo"? Purtroppo non è sci-fi, anzi, c'è già gente che s'ammazza per cyber-amore. Ma tralasciando casi patologici, direi che è un futuro poco verosimile. Siamo esseri sociali per natura, dotati di intelligenza emotiva e con una predisposizione a vivere tra simili. È un altro tratto da non tralasciare e una virtù che nessun chip potrà sentire. Al più emulare.

"I robot padroneggiano il riconoscimento facciale, ma non sanno cosa significa sentire un volto. La creatività umana nasce dalla vulnerabilità, non dagli algoritmi" - Yuval Noah Harari

Etica

Ognuno ha i propri principi morali che regolano il proprio comportamento. E questo può essere un grande problema. La mia etica è differente da quella di tuzio che è differente da quella di caio. L'eterogeneità riflette la ricchezza e la diversità di noi esseri umani, ma diventa una sfida di business quando dobbiamo decidere il set di principi e valori di una intelligenza artificiale. Si parla di AI alignment, ovvero assicurarsi che le macchine agiscano in modo coerente con i nostri valori. Ma nostri di chi?

Noi designer siamo artefici di questo allineamento e farlo significa soprattutto saper aderire a quei principi inconfutabili, condivisi da tutti gli esseri umani come la reciprocità, il rispetto della vita e l'onestà.

Fuori dai giochi?

La corsa all'intelligenza piace, sia all'S&P500 che a noi early adopters. È un labirinto in cui solo chi sa perdere tempo a interrogarsi troverà l’uscita. Sì, perdere tempo: perché mentre le macchine ottimizzano, gli umani divergono. Mentre gli algoritmi replicano, noi ci fermiamo a chiederci se una strada vale la pena di essere percorsa.

Come ricorda Harari, «l’umanità non ha mai vinto una gara di velocità contro la tecnologia, ma ha sempre vinto quelle di profondità». Non serve correre più forte dell’AI: serve scavare più a fondo. Nel mistero di quel chilo e mezzo di neuroni che abbiamo tra le orecchie, c’è spazio per domande che Copilot non sa formulare: Perché questo colore? Per chi lo sto progettando? Cosa rende questa scelta etica, non solo efficiente?

I “Matteos” non spariranno, ma si trasformeranno: da disegnatori di pixel a custodi del senso. Come Bip Bip, sopravviveremo non ignorando il coyote, ma imparando a ballare sul ciglio del burrone. Con creatività caotica, etica scomoda, e quel pizzico di absurdity che — citando Minsky — «nessun algoritmo sa tradurre in codice».

Per questo l'invito è quello di pensare, agire, pensare e agire ancora: non per competere con le macchine, ma per ricordarci cosa ci rende, irriducibilmente, umani.
E se anche un giorno ChatGPT dovesse progettare un’interfaccia perfetta, c’è una domanda a cui non potrà mai rispondere: «Perché dovrebbe esistere?».