Interfacciami - N°003

Interfacciami - N°003
Io che mi interfaccio con la natura

Questa settimana ho ripreso a lavorare con BlackPep e Intarget nel ruolo di Head Of CRO. Sono già 8 mesi che collaboro con loro per aumentare la conversione degli e-commerce, prevalentemente nei settori luxury & fashion. Servirebbe un post a parte per raccontare tutto quello che sto imparando.


Le aziende che dominano l’S&P500 hanno visto nella loro storia CEO davvero folkloristici. Solo per citarne alcuni: Ballmer (Microsoft), abituato ad entrare sul palco come fosse al Tomorrowland; Bezos e Musk, che flexano i più grandi “piselloni spaziali”; Zuck, che ha il superpotere di diventare color carota.

Dall’altra, ci sono i ragazzi della porta accanto: Sundar Pichai, Sam Altman e, lui, Jensen Huang.

Doveroso disclaimer: non sono mai andato a fare un raid in MTB con loro, né un caffè, né mi rispondono su Telegram. Parlo un po’ per osmosi.

Jensen, con il suo fare bilanciato e con grande presenza mentale, in un’intervista che vi consiglio di guardare, se ne esce schietto: dobbiamo imparare ad interfacciarci con l’AI. Mica lui, noi. Noi followers, noi che abbiamo imparato a dire sì con grande enfasi ad ogni innovazione.

È solo prompting?

Se non hai ancora aggiunto tra le tue skills su LinkedIn “prompt engineering”, mi spiace: inutile correre ora a farlo. L’algoritmo non premia gli ultimi.

È anche vero che, senza un buon priming e prompting, le risposte iniziano a convergere parecchio: quanto più ampio è il perimetro della domanda, tanto più i vari modelli daranno risposte medie, che tendono ad assomigliarsi.

Se poi usciamo dalle semplici richieste operative e iniziamo a chiedere opinioni sui fattacci nostri, senza un po’ di consapevolezza di queste tecnologie, le risposte spesso sembrano umane, talvolta anche ricche di emozioni.

La domanda nasce spontanea: dopo quanti messaggi iniziamo a perdere la cognizione di star parlando con una macchina? Spoiler: pochi. E lo sanno già dal 1966, quando nacque il programma ELIZA per testare con quanta facilità si rischi di antropomorfizzare un computer.

Jaron Lanier la sa sempre lunga e ci avvisa: rischiamo di "dissolvere" l'autenticità umana in algoritmi che replicano e ridistribuiscono contenuti. Vero, da un lato questo ci potenzia; dall’altro, dovremmo chiederci se stiamo effettivamente interagendo o subendo passivamente le risposte di un sistema.

“Salve sono un uomo”

Le persone sono persone. No? Certo, lo sono! Non era una domanda trabocchetto. Pensa a come comunichiamo tra di noi. Che casino meraviglioso non siamo? La nostra comunicazione è una danza di emozioni, intuizioni, non detti, silenzi e sfumature. Dialoghiamo con gli occhi, con le mani, col cuore a volte! Ogni parola è un’isola di significato nel mare di un contesto culturale condiviso.

Con l’AI, siamo nello stagno di un datacenter. Diamo un input e otteniamo un output. Non c'è anima, non c'è mistero, non c'è vita. È un'interazione che assomiglia più a un'operazione chirurgica che a una chiacchierata al bar. E noi, convinti della nostra superiorità, ci crediamo furbi nel gestire questo gioco.

Un dolcissimo inganno

Il pericolo è l'antropomorfizzazione. Quella vocina nella nostra testa che ci fa credere che l'AI sia una specie di "amico artificiale". Iniziamo a proiettare su di essa aspettative che non potrà mai soddisfare. La consideriamo saggia, empatica, quasi umana. E così, ci ritroviamo a fidarci ciecamente delle sue risposte, più di quelle della nostra nonna.

La verità, invece, è che l'AI non è né buona né cattiva, né saggia né sciocca. È una macchina, e come tale va usata.

Imparare ad interfacciarsi con l’AI significa non solo diventare un po’ più sgamati con i prompt, ma soprattutto saper navigare su queste onde tecnologiche. L'alfabetizzazione del futuro non sarà il saper scrivere prompt, ma il saper discernere ciò che è vero dal falso, ciò che è autentico da ciò che è simulato.

Per farlo occorre una ricetta fatta di consapevolezza critica, senso etico e umanità. Conoscere i limiti e i bias dell’AI per bilanciarne le risposte, usarla con responsabilità (che noia, vero?) e far valere sempre il nostro ingegno e fantasia.

Federico Faggin, che due transistor li ha visti nella sua vita, dice: “Le macchine non saranno mai coscienti, perché sono prive della consapevolezza di sé e della creatività che nasce dall'esperienza umana”. E ha dannatamente ragione.

Giochiamo 🦑

Le statistiche parlano chiaro: Gartner afferma che il 75% delle aziende userà l'AI entro il 2025. Statista ci dice che il 42% dei lavoratori teme per il suo posto di lavoro. Gartner stima che l'85% degli output dell'AI siano affetti da bias. E noi, nel mezzo di questa tempesta, dobbiamo capire come navigare senza farci travolgere.

Vi rendete conto di che periodo meravigliosamente folle stiamo vivendo? Che occasione incredibile abbiamo per far valere la nostra umanità?

Da professionista, è un momento da navigare a vele spiegate per guidare aziende, formare persone, progettare per l’uomo e dare voce all’etica che sentiamo nascere dal cuore.

Da persona, vivo tutto questo guardandomi dentro, cercando di portare a galla quanto di più umano c’è nei miei pensieri e nelle mie azioni.

Alla fine della fiera, credo che interfacciarsi con l’AI è un modo per interfacciarsi con noi stessi.


Link belli

ve ne lascio uno solo perché merita e non voglio portarvi via più di 1h di screentime.